IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI

    Visti   gli   atti  del  procedimento  penale  sopraindicato  nei
confronti di Aladje Fall, nato a Dakar (Senegal) il 6 diugno 1973, ha
pronunciato la seguente ordinanza.
    Premesso  che  all'imputato  nel presente giudizio e' ascritto il
reato di cui:
        a)  agli aicoli 110 c.p., 73, d.P.R. n. 309/1990, perche', in
concorso  con  Campini  Gianluca, senza autorizzazione, illecitamente
cedeva  ad un acquirente non identificato in quanto datosi alla fuga,
un  ovulo  termosaldato  di  sostanza stupefacente (cocaina), nonche'
illecitamente  detenevano  a  fini  di  spaccio  ulteriori  due ovuli
termosaldati  della medesima sostanza per un quantitativo complessivo
-  tra  ceduto  e  detenuto  -  pari  a  gr.  1,27  lordi di sostanza
stupefacente (cocaina);
        b)  agli  articoli 61 n. 2, 337 c.p. perche', per assicurarsi
l'impunita'  del reato di cui al capo a) usava violenza nei confronti
degli  agenti  operanti della stazione C.C. di Collegno che compivano
un  atto  d'ufficio, violenza consistita nel dimenarsi, nel tentativo
di  sottrarsi  all'arresto. Fatti commesso in Collegno il 15 dicembre
2006; con la recidiva specifica reiterata ed infraquinquennale.
    Rilevato  che,  a  seguito  di  notifica  del decreto di giudizio
immediato,   l'imputato  Campini  Gianluca  depositava  richiesta  di
applicazione  pena  a  mezzo  del  procuratore speciale, chiedendo la
definizione del procedimento con l'applicazione della pena di mesi 10
di   reclusione   ed   euro  2.800,00  di  multa,  condizionata  alla
applicazione  del  beneficio  della  sospensione condizionale, previo
riconoscimento dell'attenuante di cui al comma 5 dell'art. 73, d.P.R.
n. 309/1990,  nonche'  delle  circostanze  attenuanti  generiche;  il
pubblico ministero prestava il consenso alla suddetta richiesta.
    L'imputato   Aladje  Fall  chiedeva  invece  la  definizione  del
procedimento con il rito abbreviato.
    All'udienza  del 26 marzo 2007 il pubblico ministero chiedeva che
fosse  affermata  la  penale  responsabilita' dell'Aladje Fall per il
reato  allo  stesso  ascritto e che lo stesso venisse condannato alla
pena  di  anni  sei  di reclusione ed euro 24.000 di multa, pena gia'
ridotta per la scelta del rito. La difesa chiedeva in via principale,
in relazione al capo a) l'assoluzione perche' il fatto non sussiste o
perche'   l'imputato   non  lo  aveva  commesso  e  per  il  capo  b)
l'assoluzione  perche'  il  fatto non sussiste; in subordine chiedeva
escludersi  l'aggravante della recidiva reiterata in quanto la stessa
non  risultava  dichiarata  in  nessuna  delle  precedenti sentenze a
carico   dell'imputato,   e   concedersi  le  circostanze  attenuanti
generiche  nella  loro  massima  estensione  e l'attenuante di cui al
comma  5  dell'art. 73,  d.P.R.  n. 309/1990 e contenersi la pena nei
minimi edittali.
    All'udienza  del  18  aprile 2007 il processo a carico di Campini
Luigi  si  concludeva  con  l'applicazione  della  pena  nella misura
richiesta.
    Circa la posizione dell'Aladje Fall deve invece osservarsi quanto
segue.
    In  tale  processo  appare  particolarmente evidente la rilevante
differenza  di  trattamento  sanzionatorio  previsto  in astratto dal
legislatore  per  l'autore  recidivo  ai sensi dell'art. 99, comma 4,
rispetto  a  quello  riservato  all'autore incensurato, malgrado agli
stessi  sia  contestato  un  identico  fatto  (nel  caso di specie la
detenzione  a  fini  di  spaccio  di  tre  ovuli  contenenti cocaina,
fattispecie  che per la sua lievita' evidentemente rientra tra quelle
previste dall'art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309/1990).
    Infatti  mentre all'autore incensurato (il Campini) poteva essere
riconosciuta  ed applicata la diminuente ad effetto speciale prevista
dal  comma  5  dell'art. 73, d.P.R. n. 309/1990, tale diminuente, pur
riconosciuta,  non  poteva essere effettivamente applicata all'autore
recidivo   reiterato.  In  relazione  all'Aladje  infatti  l'art. 69,
comma 4,  impedisce  di  effettuare  un  giudizio di prevalenza delle
attenuanti sull'aggravante «protetta» prevista dall'art. 99, comma 4,
dunque  inibisce  la diminuzione effettiva della pena, consentita dal
riconoscimento dell'attenuante ad effetto speciale di cui al comma 5,
dell'art. 73, d.P.R. n. 309/1990, che prevedendo per i fatti di lieve
entita'  una  pena  minima di un anno di reclusione e di euro 3000 di
multa  consente  un  trattamento  sanzionatorio decisamente piu' mite
rispetto   a   quello  previsto  dal  comma 1,  dell'art. 73,  d.P.R.
309/1990,  il  quale  prevede  invece  una  pena  minima di 6 anni di
reclusione ed euro 26.000 di multa.
    La  valutazione  della  legittimita' costituzionale dell'art. 69,
comma  4 appare rilevante nel processo in esame in quanto costituisce
il  necessario presupposto per l'individuazione dei limiti della pena
applicabile  nel  giudizio  di  responsabilita'  penale  che riguarda
l'Aladje.   Occorre   pertanto  valutare  se  il  vincolo  posto  dal
legislatore   alla   discrezionalita'   del   giudice  con  la  nuova
formulazione  dell'art. 69,  comma  4  c.p.  sia conforme ai principi
della  Costituzione, ed in particolare se esso rispetti i principi di
offensivita-materialita' nonche' di proporzionalita' e ragionevolezza
della  pena  desumibili  dagli artt. 3, 25, secondo comma e 27, terzo
comma  della  Carta  fondamentale.  Deve  essere  inoltre valutata la
compatibilita'  della  normativa in questione con i vincoli derivanti
dall'ordinamento  comunitario  e  dunque  il  rispetto dell'art. 117,
primo comma della Costituzione.
    Individuata   nell'art. 25   Cost.   la  sede  del  principio  di
offensivita',  ovvero  del  principio  che  legittima la creazione da
parte   del   legislatore  di  fattispecie  di  reato  che  prevedono
l'applicazione  di  sanzioni  solo in presenza di fatti offensivi (v.
tra  le altre le sentenze della Corte cost. n. 354/2002, n. 263/2000,
n. 360/1995),  l'adesione a tale principio ha consentito la creazione
di  un  diritto  penale  in  cui  le  fattispecie  astratte  appaiono
rigorosamente  ancorato al fatto, e dunque all' evento-offesa patito,
relegando  le  valutazioni  relative all'autore del fatto al ruolo di
mere  circostanze del reato (cosi' anche per la recidiva, dato che il
fatto  della  plurima  commissione  di  reati  continua ad essere una
circostanza e non un reato autonomo).
    Deve  allora  essere  valutata  la  legittimita' della scelta del
legislatore  che  assegna  alla circostanza della recidiva reiterata,
dunque  ad  una  circostanza  non  riconducibile  al  fatto reato, ma
collegata invece all'autore dello stesso, un ruolo cosi' rilevante da
modificare  radicalmente  la  previsione  di  pena  nei termini sopra
descritti.
    Deve  ricordarsi  al  riguardo che la individuazione dell'entita'
della  pena  e'  un  elemento  estremamente rilevante della struttura
della  fattispecie  astratta  di  reato.  E'  la sanzione infatti che
individua  in  modo  chiaro  e  immediatamente  percepibile  il grado
dell'offesa e la conseguente reazione dell'ordinamento.
    La  proporzionalita'  della  sanzione  all'offesa  arrecata  e la
proporzionalita'  e  ragionevolezza delle risposte sanzionatorie sono
principi  direttamente  desumibili  dagli  artt.  3,  25  e  27 della
Costituzione  cui  il  legislatore  deve uniformarsi. Nel nostro caso
l'art.  69,  comma 4  c.p.,  inibendo la discrezionalita' del giudice
nella  individuazione  della  pena,  attraverso  l'imposizione  di un
giudizio  vincolato sulla comparazione delle circostanze, appresta un
trattamento   sanzionatorio   nei   confronti   dell'autore  recidivo
estremamente   piu'   severo   di   quello   applicabile   all'autore
incensurato,  malgrado gli stessi abbiano posto in essere una analoga
condotta  materiale.  Sicche'  il piano dell'offensivita' (valutata e
percepita  attraverso  la  creazione  della  sanzione) viene spostato
dall'offesa  materiale,  riconducibile  ad uno specifico evento, alle
qualita'  del soggetto che tale evento ha causato, creando un sistema
che  supervaluta  le  circostanze  soggettive fino a proporzionare le
risposte  sanzionatorie non in relazione alla condotta ed all'evento,
ma alle qualita' dell'autore.
    Se  alla circostanza soggettiva della recidiva si assegna ex lege
il   potere   di   incidere   cosi'   radicalmente   sul  trattamento
sanzionatorio,  si  consente ad una circostanza relativa al soggetto,
non  riconducibile  in  alcun  modo all'evento materiale, di influire
sull'applicazione  concreta  della  sanzione,  creando  disparita' di
trattamento,   che   lasciano   intravedere  una  insinuante,  e  non
costituzionalmente  legittima, trasformazione dell'ordinamento penale
verso un sistema che persegue i tipi di autore.
    Ne'   tale   trasformazione   risulta  conforme  ai  principi  di
proporzionalita' e ragionevolezza della pena desumibili dagli artt. 3
e  27,  terzo  comma della Costituzione, dato che la proporzionalita'
della   pena   deve   essere   parametrata  principalmente  al  grado
dell'offesa  materiale  arrecata, e solo in via del tutto subordinata
alle qualita' del soggetto autore del reato.
    Le  argomentazioni  sinteticamente  esposte vanno approfondite in
relazione alla giurisprudenza della Corte costituzionale.
    Deve   infatti   essere  chiarita  sia  la  riconducibilita'  del
principio  di  offensivita'  all'art. 25  della  carta fondamentale e
l'interpretazione  di  tale  principio in stretta correlazione con il
principio  di  materialita',  sia la riconducibilita' dei principi di
proporzionalita'  e  ragionevolezza della sanzione agli artt. 3, e 27
della   Carta   fondamentale,   con   conseguente  valutazione  della
legittimita' costituzionale dell'art. 69, comma 4 c.p.
    Circa   la   riconducibilita'   del   principio  di  offensivita'
all'art. 25   della   Costituzione   la  giurisprudenza  della  Corte
costituzionale  ha  piu'  volte  ribadito  che  l'offensivita'  e' un
principio  cardine  del  sistema  penale e che esso e' ricavabile dal
secondo  comma  dell'art. 25 della Costituzione. In particolare nella
sentenza  n. 263/2000  la  Corte  ha  ribadito  che «l'art. 25, quale
risulta  dalla  lettura  sistematica  a  cui fanno da sfondo oltre ai
parametri indicati dal remittente, l'insieme dei valori connessi alla
dignita'   umana,  postula,  infatti,  un  ininterrotto  operare  del
principio di offensivita', dal momento della astratta predisposizione
normativa  a quello della applicazione concreta da parte del giudice,
con  conseguente  distribuzione  dei  poteri conformativi tra giudice
delle  leggi ed autorita' giudiziaria, alla quale soltanto compete di
impedire,  con un prudente apprezzamento della lesivita' in concreto,
una  arbitraria  ed  illegittima dilatazione della sfera dei fatti da
ricondurre al modello legale».
    La  Corte  nella  sentenza  citata ed in numerose altre (v. Corte
cost.  n. 247/1997  nonche'  Corte  cost.  n  360/1995,  Corte  cost.
n. 144/1991),  oltre  a  stabilire  un  nesso  tra  i  massimi valori
costituzionali,  tra  cui  la  dignita'  umana,  ed  il  principio di
offensivita',   come  principio  regolatore  dell'ordinamento  penale
stabilisce  con  estrema chiarezza che tale principio deve operare in
modo  «ininterrotto»  dal  momento  della  previsione normativa della
sanzione  a  quello  dell'accertamento concreto della responsabilita'
effettuato  dal giudice penale. La Corte ribadisce in modo inequivoco
che  il controllo della offensivita' in concreto deve essere devoluto
in ultima istanza al giudice.
    Essa  ha  infatti  piu'  volte  affermato che il controllo ultimo
circa   la  riconducibilita'  della  fattispecie  concreta  a  quella
astratta,  e  dunque  la  valutazione  in  concreto dell'offesa, deve
essere  effettuata  dal giudice ordinario riconoscendo allo stesso un
ampio margine di discrezionalita'.
    Non  si  puo'  non  rilevare  come  il  legislatore  della  legge
n. 241/2005, nel vincolare la discrezionalita' del giudice, impedendo
allo  stesso di effettuare un giudizio di prevalenza delle attenuanti
sulla  aggravante di cui all'art. 99, comma 4 c.p., si pone in aperto
contrasto con la interpretazione effettuata dalla Corte del principio
di  offensivita'  come  principio  «diffuso»,  la cui operativita' in
concreto e' affidata al controllo del giudice di merito dato che tale
giudice  si trova di fatto impossibilitato ad effettuare il controllo
sulla  offensivita'  in  concreto  della  condotta  a causa del forte
vincolo  all'esercizio  della  discrezionalita' imposto dall'art. 69,
comma 4 c.p.
    Questo a meno che non si voglia ritenere che la circostanza della
sussistenza della recidiva di cui al comma 4 dell'art. 99 c.p. sia un
evento  di  per  se' offensivo e dunque meritevole in se' di sanzione
penale.
    Deve  essere  cioe' esaminato il punto precedentemente segnalato,
ovvero  se  il principio di offensivita' debba essere o meno letto in
stretta  correlazione con il principio di materialita', ovvero se sia
costituzionalmente  legittimo reprimere non solo offese materiali, ma
anche situazioni personali.
    Evidentemente   la  circostanza  di  avere  compiuto  in  stretta
successione  temporale  una  serie  di  reati e' anch'essa un dato di
fatto,  ovvero  un  evento  che si compie con la consumazione di piu'
reati.  Tuttavia  il nostro legislatore non ha mai compiuto la scelta
di punire il fatto di essere recidivo con una autonoma fattispecie di
reato,   relegando  tale  situazione  soggettiva  al  ruolo  di  mera
circostanza,  in  accordo con l'interpretazione ricorrente effettuata
dalla  Corte  costituzionale,  che ha sempre privilegiato una lettura
del  pincipio  di offensivita in stretta correlazione con il pnncipio
di materialita', individuando le offese meritevoli di risposta penale
nell'ambito delle sole offese materiali.
    In  particolare  la Corte nella sentenza n. 354/2002 nel valutare
la legittimita' costituzionale dell'art. 688 secondo comma del codice
penale  ha  stabilito  che «l'avere riportato una precedente condanna
per  delitto  non colposo contro la vita o l'incolumita' individuale,
pur  essendo  evenienza  del  tutto  estranea  al  fatto reato, rende
punibile  una  condotta  che,  se  posta in essere da qualsiasi altro
soggetto,  non  assume  alcun  disvalore  sul  piano penale. Divenuta
elemento costitutivo del reato di ubriachezza, la precedente condanna
assume  le  fattezze  di un marchio, che nulla il condannato potrebbe
fare  per  cancellare  e che vale a qualificare una condotta che, ove
posta  in  essere  da ogni altra persona, non configurerebbe illecito
penale.  Il  fatto  poi  che  il  precedente  penale che qui viene in
rilievo  sia  privo  di  una  correlazione necessaria con lo stato di
ubriachezza  rende  chiaro  che  la  norma  incriminatrice, al di la'
dell'intento   del   legislatore,   finisce   per  punire  non  tanto
l'ubriachezza  in se', quanto una qualita' personale del soggetto che
dovesse  incorrere  nella  contravvenzione  di  cui  all'art. 688 del
codice  penale. Una contravvenzione che assumerebbe, quindi, i tratti
di una sorta di reato d'autore, in aperta violazione del principio di
offensivita'  del reato che, nella sua accezione astratta costituisce
un  limite  alla discrezionalita' legislativa in materia penale posto
sotto il presidio di questa Corte».
    Dunque  la  Corte  ha  con  chiarezza  definito  il legame tra il
principio  di  offensivita'  e  quello  di  materialita' dell'offesa,
escludendo  la  perseguibilita'  delle  qualita'  personali,  qualora
queste siano elemento costitutivo della fattispecie astratta.
    Il  caso che ci occupa (ovvero il caso della cessione di sostanza
stupefacente  posta in essere dal recidivo reiterato) si distingue da
quello  trattato  dalla  Corte  in quanto il fatto di avere riportato
precedenti  condanne  non  e'  un  elemento costitutivo del reato, ma
resta   nell'ambito   delle   circostanze   (della  recidiva  di  cui
all'art. 99, comma 4 appunto).
    In tal modo il legislatore ha, almeno in apparenza, rispettato il
principio  di  offensivita-materialita'  evitando  di  considerare le
qualita'  dell'autore  come  elemento  costitutivo  della fattispecie
criminosa. Tale rispetto e' tuttavia solo apparente, dato che l'avere
previsto il divieto del giudizio di prevalenza delle attenuanti sulla
ritenuta recidiva reiterata, di fatto trasforma la risposta penale in
relazione  ad  offese  analoghe  creando  una  vistosa  disparita' di
trattamento  tra  l'autore  recidivo e l'autore incensurato, ai quali
viene  contestato  un'identico  fatto.  Sicche' deve ritenersi che il
vincolo imposto alla discrezionalita' del giudice, cui viene impedito
di  effettuare  una libera valutazione sull'offensivita' in concreto,
tramuti  cosi'  radicalmente  la  risposta  penale, da assegnare alla
circostanza   della   recidiva  reiterata  un  ruolo  sostanzialmente
costitutivo  della  fattispecie e solo formalmente circostanziale. Il
che  rende  attuali,  anche  nel caso in questione, le considerazioni
censorie   che   gia'  la  Corte  aveva  mosso  nei  confronti  della
repressione delle qualita' della persona nella sentenza n. 354/2002.
    La  legittimita'  della  disparita'  di trattamento sanzionatorio
riservata   all'autore   recidivo   reiterato   rispetto   all'autore
incensurato  deve  inoltre  essere valutata alla luce dei principi di
ragionevolezza   e   proporzionalita'  della  pena  desumibili  dagli
artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, con particolare riferimento alla
funzione  rieducativa  assegnata  dalla  Costituzione  alla  sanzione
penale.  Il principio di offensivita-materialita' comporta infatti la
necessita'  che  la  sanzione  irrogata  sia proporzionata all'offesa
arrecata,  e  che  la  stessa sia prevista in astratto e comminata in
concreto   nel   rispetto   del   principio   di  uguaglianza  e  non
discriminazione,   anche   se  adeguata  alle  specificita'  concrete
dell'evento e calibrata all'esito della valutazione delle circostanze
anche soggettive riferibili all'autore.
    La  proporzionalita'  della  pena  deve essere cioe' garantita in
astratto  dalla ragionevolezza della legislazione penale e deve trova
concreta attuazione nel corretto esercizio della discrezionalita' del
giudice, il quale deve adeguare e personalizzare la sanzione al fatto
ed alle circostanze del reato.
    In  tal  senso la Corte costituzionale nella sentenza n. 341/1994
ha   affermato   che   «il  principio  secondo  cui  appartiene  alla
discrezionalita'  del legislatore la determinazione della quantita' e
qualita'  della  sanzione  penale  costituisce un dato costante della
giurisprudenza  costituzionale  che  deve  essere  riconfermato:  non
spetta  infatti  alla  Corte rimodulare le scelte punitive effettuate
dal   legislatore,   ne'   stabilire  quantificazioni  sanzionatorie.
Tuttavia, come e' stato sottolineato soprattutto nella giurisprudenza
piu'  recente,  alla  Corte rimane il compito di verificare che l'uso
della  discrezionalita'  legislativa  in  materia  rispetti il limite
della ragionevolezza. In particolare, con la sentenza n. 409 del 1989
la Corte ha definitivamente chiarito che "il principio di uguaglianza
di  cui  all'art.  3,  primo  comma,  Cost.,  esige  che  la pena sia
proporzionata  al disvalore del fatto illecito commesso", in modo che
il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa
sociale  ed  a  quella  di tutela delle posizioni individuali; ... le
valutazioni  all'uopo  necessarie  rientrano  nell'ambito  del potere
discrezionale   del   legislatore,   il  cui  esercizio  puo'  essere
censurato,   sotto  il  profilo  della  legittimita'  costituzionale,
soltanto  nei  casi  in  cui non sia stato rispettato il limite della
ragionevolezza» (v. pure nello stesso senso sentenze n. 343 e 422 del
1993).
    La  scelta di vincolare la discrezionalita' del giudice di merito
nella  valutazione e nel concreto bilanciamento delle circostanze con
la creazione di disparita' di trattamento notevoli e non giustificate
dalla  diversita'  dell'offesa materiale arrecata viola evidentemente
il principio di ragionevolezza.
    Inoltre  la  creazione  di un sistema di sanzioni ingestibile dal
giudice  di  merito  che  vede  vincolata  la sua discrezionalita' da
aprioristiche  scelte  legislative,  che  impediscono di calibrare la
risposta   sanzionatoria  all'offesa  in  concreto  arrecata,  appare
incompatibile con la funzione rieducativa della sanzione penale, dato
che l'effettivita' del valore rieducativo discende direttamente dalla
percezione  di  ragionevolezza e proporzionalita' della pena da parte
dell'imputato.
    A   tal  proposito  la  Corte  ha  affermato  che  «la  finalita'
rieducativa   della   pena   non   sia   limitata   alla   sola  fase
dell'esecuzione,  ma  costituisca  "una  delle  qualita' essenziali e
generali  che  caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e
l'accompagnano  da  quando nasce, nell'astratta previsione normativa,
fino  a  quando  in concreto si estingue": tale finalita' rieducativa
implica pertanto un costante "principio di proporzione tra qualita' e
quantita' della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra"» (sent.
n. 313  del  1990;  v. pure sentenza n. 343 del 1993 confermata dalla
sentenza n. 422 del 1993).
    Deve  da  ultimo  essere  esaminata anche la compatibilita' della
normativa  in  questione  con  la  normativa  europea  e  valutato il
rispetto  dell'art. 117,  primo  comma  della Costituzione che impone
alla   potesta'   legislativa   vincoli   derivanti  dall'ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali.
    L'art.  69,  comma 4 c.p. nella parte in cui impone il divieto di
prevalenza  delle attenuanti sulla ritenuta aggravante della recidiva
reiterata   si   pone   in   contrasto   con   il  principio  di  non
discriminazione,  sancito  dall'art. 14 della Convenzione europea dei
diritti dell'uomo.
    Com'e'  noto,  tale  principio,  che  si  fonda sul piu' generale
presupposto  della pari dignita' di tutti gli esseri umani, impone di
assicurare  un  trattamento  uguale  -  con riguardo al godimento dei
diritti  garantiti  dalla  Convenzione,  tra  cui rientra quello alla
liberta'  personale  -  ai  soggetti  che  si  trovino  in situazioni
analoghe  o  comparabili,  laddove  non  ricorra  una giustificazione
obiettiva e ragionevole.
    La  giurisprudenza  della  Corte  di  Strasburgo ha costantemente
identificato  la  giustificazione  obiettiva  e ragionevole in quella
categoria di esigenze che perseguono un fine legittimo all'interno di
una  societa'  democratica  e  rispettano  un rapporto ragionevole di
proporzionalita'  tra  il  mezzo impiegato ed il fine proposto (v. in
tal  senso  gia'  la sentenza del 23 luglio 1968, Affaire relative a'
certains   aspects   du  regime  linguistique  de  l'enseignement  en
Belgique).  Al fine di evidenziare la ragionevolezza della differenza
di  trattamento  tra  le  varie  situazioni,  assume  un  particolare
significato   la  presenza  di  un  denominatore  comune  ai  sistemi
giuridici  degli Stati membri del Consiglio d'Europa (sentenza del 28
novembre 1984, Rasmussen c. Danimarca).
    Orbene,  non vi e' dubbio che la scelta legislativa di attribuire
preminente  rilievo,  ai  fini  della  commisurazione  della sanzione
penale, non alla responsabilita' per lo specifico fatto giudicato, ma
ad ulteriori condotte criminose estranee al processo de quo, si ponga
al  di  fuori  dei parametri fissati dalla giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell'uomo. Si tratta, infatti, di un orientamento
normativo che, in presenza di un fatto criminoso identico, conduce ad
applicare  sanzioni  penali  di  entita' enormemente differenziata ai
diversi   autori,  per  finalita'  che  risultano  estranee  ai  fini
legittimi  perseguibili  all'interno  di una societa' democratica, in
quanto  si  imperniano  sulla logica del «tipo di autore» e non sulla
responsabilita'  per  il  singolo fatto commesso; non e' un caso, del
resto,  che tale scelta non sia affatto condivisa da gran parte degli
altri Stati europei.
    Viene   cosi'   a   realizzarsi   una   discriminazione   vietata
dall'art. 14  della  Convenzione  europea  dei diritti dell'uomo, cui
deve   riconoscersi   una   «natura   sovraordinata»   rispetto  alla
legislazione  ordinaria.  Depongono  in  tal  senso, infatti, le piu'
recenti  decisioni  della  Corte di Cassazione (v. in particolare, la
sentenza  n. 2800  del  25  gennaio  2007, ric. Dorigo), come pure il
nuovo  testo  dell'art.  117,  primo  comma  Cost.,  che  vincola  la
legislazione  statale  al  rispetto  degli obblighi internazionali, e
colloca  le  norme  internazionali che ne sono la fonte su un gradino
superiore rispetto alle leggi ordinarie.